Intervista a Paolo del Fiol, regista del panorama horror indipendente che vanta più di dieci anni di esperienza in campo cinematografico. Titoli come Kokeshi e Tomie Again sono solo alcune delle sue opere in cui la cultura nipponica e quella occidentale si intrecciano tra loro dando luogo a storie estremamente interessanti e molto particolari.
Del Fiol ci parla inoltre dei suoi primi lavori ma anche dei progetti futuri.
L: Chi è Paolo del Fiol?
P: Paolo Del Fiol, pavese, classe 1976, è da sempre un appassionato di cinema, soprattutto di genere horror/fantastico. Laureato in CTF comincia scrivendo di cinema sul quotidiano L’Opinione e poi come redattore della rivista Buioinsala. Nel 2004 la sua passione per i viaggi lo conduce fin nel lontano Giappone dove conosce Reiko Nagoshi, che sposa nel 2005. L’unione di queste due culture così diverse segna anche il suo percorso artistico, portandolo a realizzare opere a cavallo tra l’horror giapponese e il cinema di genere italiano anni 70/80.
L: Quando ti sei avvicinato al mondo del cinema e perché?
P: Mi sono avvicinato al mondo del cinema nel 2002 insieme ad un caro amico, Dominik Flacio, che condivideva la mia stessa passione, con il quale decidemmo di metterci all’opera sul primo dei nostri lavori (ne avremmo poi realizzati insieme altri 4, fino al 2005). Il motivo è uno solo: l’amore che ho da sempre per quest’arte.
L: Hai una lunga filmografia alle spalle. Cosa ci racconti del tuo primo cortometraggio horror?
P: Il mio primo cortometraggio, dal titolo Blindview fu un’esperienza incredibile. Lo girai insieme a Dominik Flacio nei cortili dell’università di Pavia in un febbraio polare e alla Facoltà di Anatomia. In quest’ultima ci permisero di fare riprese nel museo anatomico, con risultati alquanto inquietanti. Nonostante si trattasse di un lavoro da neofita, partecipò lo stesso a parecchi festival e piacque soprattutto a Pavia, dove c’è gente che ancora se lo ricorda a distanza di ben 12 anni.
L: Where am I? (diretto insieme a Dominik Flacio) è il corto vincitore dell’edizione 2005 del Joe d’Amato Horror Festival. Che ricordo hai di questa esperienza?
P: Where am I? fu il mio primo lavoro ispirato ad opere giapponesi, liberamente tratto da una storia a fumetti di Hiroiko Araki. Ai tempi non esisteva ancora la traduzione in una lingua comprensibile di suddetta opera, per cui misi al lavoro mia moglie ed un amico che era venuto a trovarmi dal Giappone. Poi io e Dominik adattammo il tutto alle nostre esigenze, cambiando anche il finale. Causa ospiti da seguire, riprese esclusivamente notturne e una dannata fretta per rientrare nel bando del primo festival utile (il Joe D’Amato appunto, la cui iscrizione scadeva a giorni), è probabilmente il corto che amo meno. Tuttavia fu molto divertente preparare tutti insieme i diabolici trucchi della prigione in cui sarebbe incappata la nostra attrice protagonista (una strepitosa Carla Gil).
Per quanto riguarda invece vincere un festival di tale portata (per i parametri italiani), fu un’esperienza fantastica che auguro a tutti i miei colleghi.
L: Tra l’altro questo corto è stato inserito nel DVD Horror Underground prodotto dalla FilmHorror, insieme ai lavori di altri registi italiani (Alex Visani, Marco Ristori…). Cosa pensi di questo progetto?
P: I ragazzi della FilmHorror furono tra i primi a credere nella validità del cinema indipendente, purtroppo ai tempi si aveva la tendenza a identificare l’indipendente con l’amatoriale e il progetto non fu del tutto capito neanche dagli appassionati dell’horror. Oggi per fortuna le cose stanno (molto) lentamente cambiando, lo testimoniano progetti come P.O.E. e il nuovo 17 A Mezzanotte che destano sempre più interesse.
L: Sempre insieme a Dominik Flacio nel 2004 hai diretto La cagna, un mediometraggio sulla demonologia. Cosa pensi di questa opera?
P: La Cagna è sicuramente il film che amo di più tra quelli della prima parte del mio percorso artistico. Realizzarlo fu una vera e propria sfida, eravamo alle prime armi e le scene erano veramente complesse. Ci impiegammo quasi un mese, ma fummo molto soddisfatti del risultato finale, grazie anche alla bravura e alla pazienza degli attori coinvolti. Dentro c’è un po’ di tutto, splatter, demoni, zombi e una scena onirico/erotica molto audace per i tempi. La cagna non circolò molto, se non per una fugace apparizione al Joe D’Amato 2004 come evento speciale, ma vanta spettatori d’eccezione come molti registi famosi di genere italiani (tra cui il compianto Bruno Mattei) e il maestro americano Stuart Gordon.
L: Quando hai deciso di fondere la cultura orientale con quella occidentale nelle tue opere?
P: Non è una cosa che ho deciso deliberatamente, deriva tutto da una maturazione decennale che mi ha portato a cercare nuovi stili, anzi a trovarne uno che potesse far distinguere i miei film. Una specie di marchio di fabbrica, insomma. Il connubio perfetto l’ho avuto con Kokeshi, mentre i primi lavori pendevano più da un lato o dall’altro.
L: Cosa ti affascina del cinema orientale tanto da aver deciso di rivisitarlo in chiave italiana? Quali sono i registi orientali che più apprezzi? Quali i loro film?
P: La cosa che mi affascina di più è senza dubbio la poesia delle immagini, anche nel caso di film estremi e la finezza dei temi trattati. Amo sia il cinema d’autore con la sua lentezza ragionata che quello più fracassone dei nuovi maestri dello splatter. Anni fa, quando ormai pensavo d’aver visto tutto, il cinema orientale fu una piacevole scoperta. Tra i miei film favoriti, spaziando dall’autoriale allo splatter, figurano Dolls (Takeshi Kitano), Gogo Second Time Virgin, Rengo Sekigun (entrambi di Koji Wakamatsu), Tokyo Gore Police (Yoshihiro Nishimura), Ichi The Killer (Takashi Miike), Tetsuo (Shinja Tsukamoto), Suicide Circle (Sion Sono). Ma è comunque un genere di cinema che in generale amo molto.
Per quanto riguarda me, invece, non mi muovo verso una rivistazione o occidentalizzazione del cinema asiatico, ma nel creare storie in cui possano coesistere elementi di entrambe le culture, senza che uno fagociti l’altro. Per farmi capire meglio, l’esempio forse migliore è Kokeshi, in cui una coppia di serial killer che agisce come in torture porn anni ’70, viene messa in crisi dallo spettro di una ragazzina giapponese che invece si muove (anzi fa muovere la vicenda) secondo i propri canoni. Per cui il film ad un certo punto cambia forma e si sposta bruscamente da gotico ad orientale.
L: Kikioboe (2006) è il tuo primo corto girato in Giappone. Puoi Parlarcene?
P: Kikioboe significa letteralmente “storia che conosci perché l’hai già sentita in passato, ma non ricordi perfettamente”. Magie della lingua nipponica. Quanto amo questo film. Fu forse l’ultimo anno in cui potei passare il capodanno in Giappone e decisi di mettermi al lavoro su un corto, supportato dall’Italia da tutti gli amici del forum di filmhorror.com. Inventai una leggenda metropolitana e da li costruii una storia, coinvolgendo mia moglie (alla sua prima esperienza), un’amica e parte della famiglia, cane compreso. Narra di due amiche che trovano in un tempio una statuetta di maneki neko (una specie di spirito giapponese a forma di gatto) ed esprimono un desiderio ciascuna, incuranti del fatto che la creatura volesse essere pagata per i propri servigi. Megumi, la più sciocchina delle due, perennemente a dieta, sceglie di trovare tutte le mattine al risveglio un pasticcino alla crema, mentre Kyoko, rimasta sconvolta dalla perdita del marito, desidera qualcosa di ben più pericoloso…
Purtroppo il corto è rovinato da una resa visiva pessima, fu infatti girato con la vecchia (già per i tempi) VHS-C di mio suocero, tuttavia ho intenzione di farne presto un remake sempre in Giappone.
L: Com’è nata la collaborazione con Daniele Misischia per la realizzazione di Connections (2013)?
P: Mi innamorai del lungometraggio Il Giorno dell’Odio, rimanendo colpito dalla maestria di Daniele Misischia nel girare scene tanto insolite nel panorama italiano. Da lì mi venne l’idea di realizzare un “grindhouse” seguendo il modello di Tarantino, un pulp e un horror da proiettare uno di seguito all’altro che avessero come tema comune il dolore.
Anche Misischia fu entusiasta dell’idea e ci mettemmo al lavoro creando “Connections-The Real italian Grindhouse”. Sono due episodi molto diversi come ritmo e stile, ma che secondo me si integrano perfettamente l’uno con l’altro. Tra tutti penso sia il mio film più riuscito, complici anche un cast splendido e affiatato.
L: Kokeshi è il mediometraggio che affianca Hobo di Misischia in Connections. Il tuo film è un mix di generi diversi e offre una storia ben curata e ricca di dolore. Com’è nata l’idea di inserire elementi come la malattia CIPA, la bambolina giapponese (Kokeshi) e il gioco Kagomè?
P: Kokeshi è il frutto di una sceneggiatura molto ragionata, a cui lo scrittore Cristiano Fighera ha dato un contributo fondamentale. Ci sono voluti due mesi per mettere tutti i tasselli a posto e caratterizzare bene i personaggi, ma alla fine ne è uscito un gran bel lavoro. Il dolore è il tema fondamentale di tutta la vicenda, per cui servivano motivazioni serie per giustificare l’efferatezza e l’emarginazione sia delle vittime che dei carnefici. Non dico altro per non rovinare la visione, essendo il film in giro per i festival proprio in questo momento. Si sappia solo che sul Kagomè, la macabra filastrocca ripetuta per tutto il film, si potrebbero girare almeno altre tre storie tanto è vasta la sua simbologia. La bambolina Kokeshi, invece, fa parte della serie “oggetti maledetti” tanto amati in Giappone, a cui addirittura c’è un tempio dedicato (e che non è detto che non inserisca nei prossimi lavori, magari il remake di Kikioboe).
L: Holdouts (foto a lato di Fabio Riberto) è uno degli episodi che fanno parte dell’antologia horror 17 a mezzanotte (2014) di Davide Pesca. Puoi parlarci del tuo corto?
P: Holdouts è un corto di quattro minuti decicato ai soldati fantasma giapponesi (i japanese holdouts appunto).
Pochi giorni dopo la resa del Giappone, in una base americana in fase di smantellamento, fa capolino un misterioso carroarmato…
Un piccolo rape e revenge di cui vado fiero, nonostante la sua brevità, grazie anche alla bravura degli attori e all’utilizzo di veri mezzi militari.
Due curiosità: ad un certo punto fa capolino la bambolina kokeshi, la stessa già vista in “Kokeshi”, configurando Holdouts come un suo piccolo spinoff.
Un altro montaggio di questo corto, per cui sono state utilizzate solo scene
girate con Iphone, è stato vincitore ad Aprile del FiPiLi horror festival categoria smart e short movies.
L: Mochi è il titolo del tuo cortometraggio in Sangue misto, film collettivo ideato da Davide Scovazzo. Puoi svelarci qualcosa in anteprima?
P: Non ho detto prima che Kokeshi doveva far parte di una trilogia dal titolo Yamato Kaiiki (Cronache di strani fenomeni giapponesi), di cui il secondo capitolo sarà proprio Mochi. Nel progetto originale si trattava di un lungo sugli Yokai, gli spiriti giapponesi, montato in stile Dolls di Kitano, che però ho deciso di spezzare dati i costi e i tempi di realizzazione di ciascun episodio. Sono però felice che verrà inserito in Sangue Misto, dal momento che ho la possibilità di lavorare con quelli che reputo i migliori registi del panorama italiano.
Mentre il tema portante del primo era il dolore, quello di Mochi sarà l’amore. La protagonista è Mochiko che, trasferitasi da Tokyo nella nebbiosa Milano per inseguire il sogno del canto, dovrà fare i conti con la dura realtà che riguarda il suo corpo. Non aggiungo altro per non rovinarvi la sorpresa, posso solo dirvi che ne vedrete delle belle proprio come nel primo capitolo.
L: Cosa pensi dell’attuale panorama cinematografico horror indipendente?
P: Sono felice che finalmente qualcosa cominci a muoversi anche in Italia. I film indipendenti che riescono ad approdare al cinema sono pochi, ma ci sono, situazione impensabile solo fino a tre anni fa. Il pubblico è stanco da un pezzo stanco delle commedie fotocopia, per cui preferisco pensare ad un futuro roseo, anche se non sarà facile affermarsi in una realtà così monopolizzata. Ed è un assurdo perché ad essere snobbati sono proprio i nuovi talenti italiani che stanno dando una svolta ad un cinema ormai defunto.
L: Quali sono i tuoi progetti futuri in campo cinematografico?
P: Ho quattro sceneggiature nel cassetto che spero di realizzare nei prossimi anni. A parte Mochi, ormai in preproduzione, c’è il terzo capitolo della trilogia italo-giapponese, Neko e altri due lunghi questa volta da girare totalmente in Giappone (Anzi uno partendo dal deserto…). Non saranno prettamente horror puri e riguarderanno temi come l’ecologia e lo tsunami.
L: Una tua opinione su questa intervista?
P: Mi avete fatto ricordare cose che avevo sepolto nella memoria. E’ strano pensare di non aver combinato nulla, poi fai un sunto di dieci anni di vita e ti accorgi invece dell’esatto contrario.
L: Puoi lasciare un messaggio alla community di DarkVeins?
P: Ringrazio di cuore tutta la community per il supporto e il calore che ci date continuamente. Cito solo un ultimo aneddoto di qualche tempo fa. Dopo un pranzo tutto a parlare di cinema, una cara amica di famiglia, Ines Pellegrini, attrice negli anni ’70, vedendomi preso dallo sconforto, mi confidò il segreto degli americani. Disse: ”non devi mai abbatterti, lo sai qual è il segreto degli americani? E’ che loro non mollano mai”. Ogni tanto, quando mi sembra di non riuscire e che le cose siano più grandi me, ripenso sempre a queste parole. E parto in quarta, forse troppo… Grazie ancora amici!
L: Grazie a te Paolo e buon lavoro!