Cannibal Movie – I Cannibali al cinema

cannibalQuello tra cannibali e spaghetti è stato un connubio vincente tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. Molto si è detto e si è scritto, spesso a sproposito e di frequente solo su deboli basi d’appoggio. Sta di fatto che il genere ha suscitato molti consensi, così come parecchi attacchi burocratici dai tutori della legge. Il clichè tipico del genere cannibalico è il seguente: scenografia selvaggia, riscontrata nelle giungle tropicali; tribù indigene con attitudini primitive, lontane dal contatto con la civiltà; inserti documentaristici con lotte tra animali, spesso di dubbio gusto. Sul banco degli imputati finivano registi e produttori, rei di aver creato appositamente (secondo le autorità) danni fisici a persone o animali in favore dello spettacolo. Prova ne è che alcuni titoli sono stati posti sotto sequestro e hanno dovuto subire pesanti tagli in fase di montaggio, soprattutto nei paesi latino-americani ed in Italia, prima di essere mostrati in una sala cinematografica. Effettivamente la maggior parte delle sceneggiature proposte è ricca di violenze gratuite; in quel periodo non esisteva ancora una legge che tutelasse l’integrità fisica degli animali nel mondo del cinema, per cui erano costretto sovente a subire torture fino alla morte. Altro elemento di discordia sono i presunti soprusi inflitti agli indigeni protagonisti nelle varie storie; le accuse, del tutto infondate, rivolte ai tecnici erano i possibili maltrattementi mostrati in video.
In realtà a far cadere spesso in errore sono state le campagne pubblicitarie di lancio dei film, i cosidetti trailers, che vantavano come autentiche le scene girate nei vari ambienti selvaggi del mondo. Lo scopo prioritario degli autori era sottolineare le sostanziali differenze tra il progresso della civiltà occidentale, col suo sfarzo e le sue (finte) buone maniere, e le usanze degli indigeni, costretti a vivere (ma solo fisicamente) come neanderthaliani. Quello che ne esce è l’immagine dell’uomo bianco disadattato in un ambiente selvaggio ed incontaminato, incapace di opporsi ai pericoli della natura perché assuefatto dagli agi tecnologici. Viene rivalutata la figura dell’indigeno, abituato ad usi e pratiche forse crudeli, ma considerate necessarie nella sfera delle proprie credenze.
In fondo è “l’homo tecnologicus” l’artefice dell’invasione territoriale, che utilizza la violenza verso tutto ciò che non riesce ad accettare…

Il cannibal-movie trae spunto da un altro e più noto genere, che ha vissuto il suo massimo fulgore tra la metà dei ’60 e la fine dei ’70, cioè il mondo-movies (o shockumentaries, come viene sovente definito). Resi famosi da registi italiani come Jacopetti, Prosperi e Climati, mostravano scene girate in ambienti selvatici e poco conosciuti dall’evoluta civiltà dell’uomo occidentale. Non era difficile osservare tribù stanzianti in ambienti primitivi, con usanze e costumi completamente differenti dai nostri.

È sotto questo principio, cioè mostrare il lato crudo delle civiltà terzomondiste, che è nato il primo film cannibalico nel 1972: Il Paese Del Sesso Selvaggio di Umberto Lenzi. È la storia di un giornalista che a Bangkok uccide accidentalmente un uomo in una rissa. Per fuggire alla lunga mano della giustizia, è costretto a nascondersi nella giungla thailandese. Finirà nelle grinfie di una tribù indigena, che per accettarlo tra loro lo sottoporranno a prove iniziatiche piuttosto atipiche e crudeli. Ma alla fine verrà inserito come membro fisso della comunità, dove troverà anche la compagna della vita. Guiderà il suo nuovo popolo verso la dura battaglia contro una tribù rivale che pratica il cannibalismo.
Oltre ai soliti ingredienti, Lenzi ha voluto smaccatamente omaggiare un’altra storia, che proprio in quel periodo ha destato interesse nell’opinione pubblica, vale a dire Un Uomo Chiamato Cavallo. Tra i protagonisti troviamo un bravissimo Ivan Rassimov e la bella Me Me Lai, attrice determinante nel genere cannibal-movie. Le locations sono proprio quelle thailandesi, tanto per rimanere fedeli alla narrazione.

Trascorreranno 5 anni prima di veder realizzata la seconda opera cannibalica. Sarà il molto discusso Ruggero Deodato a firmare la regia di Ultimo Mondo Cannibale, primo di due film che lo renderanno amato/odiato da molti fans e accanniti detrattori. È la storia di alcuni operatori di una compagnia petrolifera, mandati nell’isola di Mindanao a sostituire alcuni colleghi. Ma al loro arrivo troveranno tutti morti, uccisi da una tribù indigena che pratica il cannibalismo. Del gruppo viene catturato Massimo Foschi, che sarà costretto a vivere imprigionato ed umiliato da un popolo di selvaggi. Grazie alle simpatie di una donna della tribù (Me Me Lai), riesce a scappare ed a raggiungere l’ultimo superstite della compagnia (Ivan Rassimov). Ma fuggire attraverso la giungla sarà arduo, con gli indigeni che conoscono meglio di chiunque le insidie della natura…
Deodato ha scelto la Malesia come set dove ambientare la scenografia. Il film è riuscito abbastanza bene, nonostante qualche falla nel plot e dialoghi abbastanza scontati. Sono presenti i primi elementi che caratterizzano il genere cannibalico, non ancora ingigantiti o enfatizzati come nelle successive pellicole. Il regista romano dimostra una certa esperienza dietro la macchina da presa; non annoia e tiene lo spettatore in attesa della scena successiva.

Nello stesso anno si cimenta nel genere anche il buon Joe D’Amato col suo Emanuelle e gli Ultimi Cannibali, quarto o quinto film sulle gesta di una giornalista di colore interpretata da Laura Gemser. La reporter questa volta si trova in un manicomio, sotto mentite spoglie, per osservare di persona come vengono trattati i malati di mente. Rimane scioccata quando osserva una paziente che morde a sangue il seno di un’infermiera. Scopre che il suo trauma deriva dall’incontro con alcuni indigeni residenti in Amazzonia e cerca di saperne di più. Tentata dallo scoop giornalistico, organizza una spedizione insieme ad un etnologo (Gabriele Tinti), che l’aiuterà a comprendere le usanze locali. Ma l’avventura si tramuterà in tragedia, quando insieme ad altri componenti della spedizione farà la conoscenza dei selvaggi.
Anche Aristide Massaccesi (vero nome del regista) si lascia tentare dalla possibilità di lauti guadagni col cannibal-movie. Seguendo le orme lasciate dai suoi predecessori, confeziona un prodotto abbastanza riuscito, al quale aggiunge il suo indelebile marchio di fabbrica (l’eros). È proprio il connubio tra questi due elementi la novità sostanziale, con la presenza di alcune conturbanti attrici quali la già nominata Gemser (di origine indonesiana), l’esperta Susan Scott (alias Nieves Navarro) e la giovane Monica Zanchi. Forse le troppe sequenze erotiche spezzano il ritmo della storia, annoiando un po’ lo spettatore; ma la presenza di effetti speciali splatter piuttosto riusciti ne risollevano le sorti.

Siamo nel 1978 ed è la volta di Sergio Martino, che realizza un avventuroso a tinte horror/antropofagiche: La Montagna Del Dio Cannibale. Una ricca donna, interpretata dall’avvenente Ursula Andress, organizza una spedizione alla ricerca del marito, studioso antropologo, scomparso senza lasciare tracce in Nuova Guinea. Dai componenti viene a sapere che l’obiettivo del marito era cercare un filone di uranio, nei pressi di una montagna ritenuta sacra da alcuni indigeni. Durante il viaggio, costellato di pericoli di ogni genere, verranno a contatto con la tribù che domina il territorio. Alcuni periranno, mentre i superstiti vengono fatti prigionieri. La donna scopre che il marito era già defunto da tempo e venerato dai selvaggi, che lo ritenevano un dio.
In questo nuovo capitolo, la storia assurge connotati decisamente più avventurosi, tipici di Martino (autore di una trilogia avventuroso/orrorifica, di cui fanno parte anche L’Isola Degli Uomini Pesce e Il Fiume Del Grande Caimano). La componente ecologica viene affrontata senza troppi veli, un chiaro messaggio alle associazioni naturalistiche stile Greenpeace. La storia è intrigante, ben interpretata e girata, con un buon uso degli effetti splatter. Del cast fanno parte, oltre la bionda svizzera Andress, anche un bravo Claudio Cassinelli (presente in numerose pellicole di genere italiane) e l’americano Stacy Keach. Anche se l’argomento cannibalico non è evidenziato come nei precedenti, il film è godibilissimo, degno di far parte di una videoteca di appassionati.

Nel ’79 esce il film simbolo del genere; il titolo che più di ogni altro ha generato consensi e critiche, guadagnandosi la fama di maledetto. Il regista è ancora una volta Ruggero Deodato ed il nome è Cannibal Holocaust.
Narra di quattro giovani documentaristi scomparsi nella foresta amazzonica da circa un anno. Sulle loro tracce si mette un famoso antropologo (Robert Kerman), finanziato da una nota tv americana, per conoscere il loro destino. Dopo molte peripezie ed incontri pericolosi, riesce a raggiungere il suo obiettivo, ma ciò che trova sono un mucchio d’ossa spolpate dal tempo e dagli uomini. Recupera il materiale video girato dai ragazzi e lo porta a New York, dove viene montato. Quello che il professore ed i dirigenti tv osserveranno, è una serie di efferati e nefandi crimini commessi dai quattro, col solo intento di raggiungere fama e gloria internazionale. Ma non avevano fatto i conti con la reazione della natura, sotto forma di tribù indigena, che si è presa la sua rivincita dai soprusi dell’uomo bianco.
Interpretato da quattro giovani e sconosciuti attori, recuperati da Deodato in una scuola di recitazione, è diventato un autentico cult-movie nell’intero panorama del cinema. Ovviamente le critiche sono piovute a causa dell’uccisione gratuita di animali; alcuni giudici ne hanno decretato il sequestro per le supposte reali violenze ai danni degli indigeni. È stato molto difficile per la produzione dissequestrare il materiale e proporlo, dopo tagli in fase di montaggio, nelle sale cinematografiche. Se accantoniamo questi problemi, il film è davvero ben girato, con un’ottima scelta della scenografia (un isolato paese nella foresta amazzonica colombiana) ed una colonna sonora ben congegnata da Riz Ortolani. Naturalmente gli effetti splatter si sprecano, in un contesto del genere…

Ancora un altro anno e nel 1980 esce il secondo titolo realizzato da Umberto Lenzi, Mangiati Vivi! Rispetto al precedente Il Paese Del Sesso Selvaggio, condisce la storia con elementi splatter e gore molto ben realizzati, che rendono veramente l’idea della drammaticità della situazione.
Una donna (Janet Agren) và alla ricerca della sorella scomparsa in Nuova Guinea. Con l’aiuto di un ex-marine americano, riesce a rintracciarla: fa parte di una comunità religiosa, guidata da un perfido reverendo Jonas. Infatti il suo credo è la redenzione dei peccati attraverso la sofferenza fisica; chi ne entra a far parte, non può uscirne… almeno vivo…
La storia prende spunto da un reale fatto di cronaca, cioè la strage della Guyana da parte del pazzo reverendo Jones (convinse al suicidio centinaia di adepti alla setta). Unitamente alla cronaca, aggiunge il cannibalismo sfruttando la rivalità tra una tribù indigena e la comunità che porta a diverse vittime. Come già accennato, indimenticabile la scena finale in cui la povera Paola Senatore e l’immancabile Me Me Lai vengono torturate e cucinate. Presenti nel cast altre due icone sacre come Robert Kerman e Ivan Rassimov (il magistrale reverendo Jonas).

Sempre nell’80 esce nelle sale uno strano mix tra antropofagia, guerra e poliziesco, Apocalypse Domani diretto da Anthony Dawson (Antonio Margheriti).
Alcuni reduci della guerra del Vietnam tornano in patria, con le ovvie difficoltà di reinserimento nella società che non li accetta di buon grado. Ma si portano appresso anche uno strano morbo, che li costringe ad assalire le persone e morderle a sangue. Attraverso i ricordi, si scopre che sono stati prigionieri in un campo vietcong ed hanno assistito a pratiche antropofagiche, a cui sono stati costretti loro stessi. Alla fine la polizia riuscirà ad avere la meglio, ma il contagio sembra tutt’altro che debellato…
Il titolo strizza l’occhio ovviamente al ben più famoso Apocalypse Now di Coppola, ma ne prende le distanze nella trama. Più che soffermarsi sugli elementi psicologici dei personaggi, Dawson propende per la crudezza delle immagini senza esagerare troppo con gli effetti splatter. Un bravo Giovanni Lombardo Radice, noto agli appassionati del cinema di genere, rende molto bene il personaggio del disadattato e vittima delle circostanze; la partecipazione di John Saxon regala un tono di professionalità alla storia.
Un titolo che si lascia vedere senza eccessivi slanci entusiastici, rimarcando semplicemente le incongruenze della nostra società, brava a trovare nuove soluzioni tecnologiche e incapace di affrontare problematiche di natura sociale.

Joe D’Amato si ripresenta nel mondo dei cannibal-movie con un titolo a metà strada con l’horror gotico: Antropophagus.
Alcuni turisti si recano in un’isola greca. Giunti sul posto, trovano il locale villaggio deserto, senza nemmeno l’ombra di un cane. Si mettono alla ricerca di qualche abitante, ma troveranno solamente una ragazza cieca in preda allo shock. Pare sia stata testimone di un’aggressione da parte di uno squilibrato e che ne sia uscita viva per miracolo. Il killer inizia la sua opera di massacro nei confronti dei nuovi arrivati…
La storia fa leva quasi esclusivamente sul mostro, interpretato da un bravissimo George Eastman (Luigi Montefiori), e sulla spasmodica attesa della sua prossima mossa. L’ambientazione è vagamente gotica e ricorda certe atmosfere lovecraftiane, giocando sulle sensazioni di paura che aggrediscono improvvisamente. Non mancano le scene ad effetto, ad esempio quando Eastman cattura Veronica Steiger (alias Serena Grandi), le strappa via il feto e se lo mangia. Oppure l’ultima scena, quando ormai sconfitto Eastman mangia le sue stesse budella. La parte relativa al cannibalismo viene accentuata dagli antefatti che hanno portato Eastman a trasformarsi in un famelico killer. Durante un naufragio, è stato costretto a cibarsi della carne della moglie e del figlioletto per poter sopravvivere; a causa di questo traumatico episodio, è diventato un divoratore di carne umana. Un film davvero azzeccato e che ha suscitato molte polemiche tra i soliti puritani, in relazione alla famosa scena del feto e censurata in molti paesi.

Nell’81 Lenzi dirige il suo terzo e ultimo cannibal-movie, ossia Cannibal Ferox. Una studentessa americana è prossima alla laurea in antropologia; le manca la tesi finale e decide di dedicarla all’antropofagia. Insieme al fratello e ad un’amica, si reca in Amazzonia per verificare la presenza di una tribù mangiatrice di carne umana. Invece incontreranno due connazionali, dediti al narcotraffico ed al furto, che si trovavano in zona attirati dalla presenza di gemme preziose lungo il fiume. Insieme arrivano al villaggio indigeno, privo di uomini; sono presenti solo donne, bambini e qualche vecchio. Il comportamento dei due mercenari insospettisce la studentessa ed il fratello. Dal racconto di uno di loro, scopriranno l’amara verità: sotto gli effetti della cocaina, avevano torturato ed ucciso alcuni abitanti e ora i guerrieri si sono messi sulle loro tracce. La vendetta sarà tremenda, quando finalmente i selvaggi riusciranno a catturare il gruppo.
Onesto lavoro del regista toscano, che realizza un titolo davvero ostico per chi rimane impressionato da scene gore.
Gli effetti speciali sono davvero al limite del sostenibile, con in testa la famosa scena di Zora Kerova appesa per i seni a dei ganci da macellaio. Ancora presente Giovanni Lombardo Radice (sotto lo pseudonimo di John Morghen) nella parte del narcotrafficante squilibrato, che provoca la violenta reazione degli indigeni. Anche in questo caso viene sottolineato il messaggio sociologico: l’uomo bianco “civilizzato” ha dei comportamenti barbarici, mentre il debole indigeno “selvaggio” deve difendersi dalle angherie subite.

Bisogna attendere tre anni, fino al 1984, prima di trovare un titolo attinente all’argomento in questione. Michael Lemick (Michele Massimo Tarantini) realizza Nudo e Selvaggio, in alcuni paesi meglio conosciuto come Cannibal Ferox II. Un aereo da turismo precipita nella foresta amazzonica; i sopravvissuti tentano di trovare la strada che li porti verso un centro abitato, ma si troveranno di fronte a pericoli di ogni genere: animali pericolosi, le insidie della giungla ed una tribù particolarmente aggressiva. Gli scampati dovranno poi vedersela con alcuni mercenari cercatori d’oro, che li terranno prigionieri per paura che possano rivelare la loro posizione. Alla fine qualcuno si salverà, ma il dazio da pagare è stato alto.
A parte i soliti dialoghi estremamente banali, la pellicola si lascia vedere col suo ritmo intenso e la varietà di situazioni presentate (dalle belve feroci, ai selvaggi, ai mercenari). In realtà l’antropofagia c’entra ben poco nella sceneggiatura ed i rimandi al film di Lenzi si limitano alla presenza di uomini privi di scrupoli che cercano ricchezza. Tarantini è maggiormente noto come regista di sexy commedie, ma dimostra di non cavarsela male neppure nel genere avventuroso. Da segnalare solamente la presenza di Michael Sopkiw, attore americano che ha recitato in numerosi film italiani anni ’80.

L’anno successivo, il 1985, esce nelle sale l’ultima pellicola italiana sul genere cannibalico; la regia è di Roy Garrett (Mario Gariazzo) e s’intitola Schiave Bianche, Violenza In Amazzonia.
Durante un viaggio sul fiume, una ragazza (Elvire Audray) assiste all’omicidio dei suoi genitori a causa di frecce imbevute di veleno lanciate da alcuni indigeni. La giovane sarà fatta prigioniera e condotta come schiava all’accampamento della tribù. È grazie all’interesse di un giovane e aitante guerriero del villaggio, di cui la ragazza prova attrazione, che la sua vita torna ad essere decente. Poco alla volta riesce ad apprezzare gli usi e costumi locali e quella che sembrava una vita selvaggia, assume un aspetto molto diverso. Ma il destino cambia le carte in tavola, quando il suo uomo viene ucciso e scopre la verità sull’omicidio dei genitori…
Un’altra storia in cui la presenza dei cannibali è più eufemistica di quello che potrebbe lasciar intendere il titolo. Per certi aspetti si potrebbe accostare ad un avventuroso-sentimentale (con la love story tra l’erudita occidentale ed il primitivo selvaggio), ma gli aspetti canonici del genere sono comunque presenti. Gariazzo ha mestiere da vendere e riesce a girare un buon film, anche se lo splatter ed il gore non sono presenti in enormi quantità.

Con questo film, si chiude idealmente il fenomeno del cannibal-movie tricolore; un genere che ha suscitato molte polemiche, ha attirato molte critiche e si è fatto parecchi nemici, sia a livello di associazioni a protezione di questo e quello che giudiziario.
Comunque lo si voglia leggere, non si può negare che il cinema antropofagico abbia contribuito allo sviluppo e crescita dello splatter, con soluzioni gore anche piuttosto ardite. Il contrasto tra la civiltà progressista ed il primitivismo dei popoli delle foreste, ha aperto una nuova prospettiva nella coscienza dello spettatore: chi è davvero il selvaggio?
In attesa della risposta, auguriamoci che qualche nostalgico regista abbia ancora voglia di emozionarci con un revival sul genere…

 

Speciale a cura di Maxena

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Barbara Torretti
Barbara Torretti
Editor e moderatrice della community di DarkVeins. Appassionata di cinema horror, mi occupo anche di recensioni e di interviste attinenti il circuito cinematografico, musicale e artistico.

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