
Intervista al regista e illustratore Stefano Bessoni che approfondisce il discorso sulle sue opere cinematografiche (Imago Mortis e Krokodyle) e artistiche (Homunculus, Alice sotto terra, Canti della forca).
Godiamoci le sue interessantissime risposte.
L: Chi è Stefano Bessoni?
B: Semplicemente sono una persona che è ossessionata dalle immagini e che per trasformare questa patologia in qualcosa di costruttivo altra scelta non ha avuto del dedicarsi al cinema. Comunque, al cinema sono arrivato tardi, verso i ventotto, trenta anni. Ho iniziato come illustratore, dopo una deviazione scientifica verso studi dedicati alla zoologia e all’anatomia, e tutt’ora disegno per visualizzare le mie idee. Ultimamente l’illustrazione mi sta gettando una bella zattera di salvataggio dalle infinite difficoltà che sto incontrando nel riuscire a realizzare nuovi film.
Il mio mondo espressivo è strettamente correlato ai miei disegni. Ritengo che il cinema sia il mezzo ideale per estendere le potenzialità delle idee catturate con carta e matita. Considero Peter Greenaway il mio maggiore punto di riferimento, per l’affinità di tematiche e per l’instancabile ricerca nella manipolazione delle immagini. Ammiro inoltre la dimensione poetica dell’opera di Wim Wenders, con particolare predilezione per “Il Cielo Sopra Berlino”, che considero uno dei pochissimi film in cui l’agilità calligrafica della macchina da presa può essere paragonata allo strumento di un disegnatore.
L: Sei un filmmaker, scrittore e illustratore. Quando nasce il tuo amore per queste forme d’arte?
B: Ho sempre disegnato, fin da quando ero bambino e da piccolo sognavo di diventare un becchino, ma poi non ci sono riuscito e così, dopo una deviazione universitaria verso la zoologia e le scienze naturali, mi sono diplomato all’Accademia di Belle Arti. Alla fine ho deciso di fare cinema, che è il mezzo espressivo che prediligo, anche se il disegno è rimasto per me uno strumento fondamentale nel mio lavoro quotidiano. Così il mondo della scienza mi è rimasto attaccato addosso ed è divenuto il nucleo centrale della mia poetica. I miei libri e i miei film ruotano sempre attorno al mondo della scienza, in particolare l’anatomia umana, la zoologia e tutte le cosiddette ‘scienze inesatte’, o ‘anomale’.
Al cinema, sono arrivato tardi, di riflesso. Mi ricordo che da piccolo mio padre mi portava in sala. Quando adocchiavo il film che mi piaceva, tornavo a casa e cominciavo a disegnare i personaggi ipotetici di un film simile a quello che avevo visto. Trascorrevo intere giornate ad inventare un universo su carta popolato da centinaia di personaggi che attendevano solo l’incarnarsi nel corpo di un attore.
L: Nel 2004 Frammenti di scienze inesatte nasce come documentario ma viene poi sviluppato in un film originale in cui vengono affrontati temi interessanti come la tanatologia, la scultura tassidermica e la zoologia apocrifa. Che fascino esercitano su di te queste discipline tanto da volerne parlare nella tua opera?
B: “Frammenti di scienze inesatte” nacque dalla necessità di fare qualcosa. Quando tu presenti un progetto ad una produzione, sai quando lo proponi ma non sai se e quando andrà in porto. Per cui, ad un certo punto, mi sono accorto che gli anni trascorrevano e l’interesse dei produttori sfumava, non si tramutava mai in un progetto concreto. Sentivo l’esigenza di fare qualcosa anche a basso budget. Così presi tre storie da tre sceneggiature differenti, tre frammenti per l’appunto.
L: Il 2008 è l’anno di Imago Mortis, co-produzione internazionale che ha coinvolto ben tre Paesi (Italia, Irlanda e Spagna). Da dove nasce l’idea di inventare la tecnica fotografica “Thanatografia” in base alla quale nella retina di un defunto è impressa l’ultima immagine vista dal soggetto?
B: Imago mortis nasce dal desiderio di costruire una favola nera incentrata sull’ossessione per le immagini, una fiaba gotica popolata di spettri terribili, di ragazzi indifesi che cercano di sfuggire ad un gioco sanguinario e di anime candide che, dopo un’esistenza tormentata, non esitano a sacrificarsi nel nome del bene. E’ un film sulle immagini e sul loro utilizzo come strumento per fermare il tempo e vincere, seppure in maniera effimera, la morte. In “Imago mortis” si parla di disegni, di fotografie, di cinema e di cinema nel cinema, il tutto sospeso in un atmosfera lugubre, sotto la costante minaccia di un misterioso complotto che si annida tra le mura di una vecchia scuola di cinema, il “MurnauInstitute”.
Nel film si racconta di una stramba quanto cruenta tecnica per catturare le immagini denominata Thanatografia. Le scienze occulte, l’alchimia, e la storia della scienza, sia quella ufficiale, che quella delle cosiddette scienze anomale o inesatte, mi hanno sempre attratto. Ho affrontato diversi studi sull’argomento, mi sono documentato il più possibile e la cattura delle immagini è senza dubbio uno dei mondi più affascinanti in cui mi sia imbattuto. Catturare la morte nell’occhio di un cadavere è qualcosa che va al di là di ogni immaginazione, nonché un tema che ha a che fare direttamente con qualcosa di soprannaturale. Tutto questo poggia le sue basi su reali sperimentazioni scientifiche, sugli effettivi studi di AthanasiusKircher, sulle esperienze ottiche di Newton, sugli studi anatomici e scientifici dell’epoca barocca e anche su ricerche più moderne.
La cattura dell’ultima immagine attraverso il fenomeno ottico della persistenza retinica, scoperto realmente nel settecento dall’abate Nollet, ha gia trovato molto spazio nel cinema, nella letteratura e in diversi fumetti, ma ho pensato che potesse essere un formidabile spunto per trattare il tema della morte e soprattutto mi sono reso conto che non fosse mai stato affrontato come una vera e propria antica disciplina scientifica, come una studio ossessivo precursore della fotografia che potesse portare ad uccidere delle persone per appropriarsi di un’immagine.
L: Le tue opere riflettono il tuo amore per il macabro e il fascino della morte. Cosa ti trasmettono in più questi temi oscuri rispetto a quelli “solari”?
B: Non lo so, è difficile rispondere, semplicemente è una cosa che è nel mio temperamento e mi viene del tutto naturale lavorare su tematiche macabre.
L: Parli spesso della wunderkammer, tema affrontato anche in Frammenti di scienze inesatte, Krokodyle e in altre tue opere. Cos’è per te la “stanza delle meraviglie”, e quant’è importante nella tua vita?
B: La wunderkammer è un luogo che mi fa sentire a mio agio, che mi aiuta a farmi venire nuove idee per i miei film, per le mie storie e i miei disegni. Contiene animaletti rinsecchiti, crani, ossa, vecchi balocchi, pupazzi, vecchi meccanismi, semi, foglie, conchiglie, insetti, crostacei, fossili, strambi oggetti… insomma tutto ciò che in me desta stupore e meraviglia.
Il mio lavoro con le immagini è accomunabile concettualmente ad una wunderkammer. Ho sempre collezionato oggetti, raccolto cose che non posso fare a meno di raccogliere, per conservarle ed esibirle in un mio personale museo del mondo. In fondo poi, credo che anche il cinema sia esattamente questo: una camera delle meraviglie. Ed è peculiare che la macchina da presa venga spesso chiamata “camera”.
L: Homunculus (2011) è una filastrocca illustrata sull’ossessione di un uomo intento a creare una forma di vita artificiale utilizzando segreti rituali alchemici e alterando i processi biologici. Oltre alla filastrocca compare anche un ricettario che spiega come creare gli omuncoli. A cosa ti sei ispirato per la creazione degli omuncoli?
B: La storia dell’homunculus si perde lontano nella memoria, sconfina nell’alchimia e nelle scienze occulte. Si dice che la creazione dell’homunculus sia un mistero che andrebbe rivelato solamente nel giorno in cui tutti i misteri saranno rivelati.
Io sono suggestionato dalla creazione di questi esseri fin da quando ero bambino e ne ho fatto uno dei punti cardine della mia poetica insieme alla wunderkammer. Ho lavorato sugli omuncoli in molti miei film e ne ho approfondito esaurientemente il concetto nel mio ultimo lavoro “Krokodyle”. Volevo assolutamente fermare anche su carta questa mia fissazione e così è nato questo libro.
Il procedimento di generazione degli Homunculus si basa sul concetto che in natura non esiste nulla di morto, che da ogni cosa può scaturire la vita. Gli antichi alchimisti erano strenui sostenitori di questa teoria e misero a punto alcune ricette di fabbricazione di omuncoli, utilizzando elementi naturali mescolati opportunamente tra loro e accelerando, nonché alterando, i normali processi biologici attraverso procedimenti misteriosi.
Non si sa bene a cosa servissero gli omuncoli, ma si ipotizza che potessero essere utilizzati per fornire agli uomini un’ottima salute, l’amore, la buona sorte, oppure per liberare dalle malattie, alleviare dai tormenti, salvare dai pericoli, scongiurare le guerre e le epidemie, proteggere dai nemici invisibili e subdoli, per difendere dagli incantesimi e dai malefici più oscuri. Gli omuncoli potevano altresì essere creati anche per far ammalare, suscitare l’invidia, l’odio, l’inimicizia, per arrecare la cattiva sorte e gettare sventure. Secondo antichissime scritture, questi piccoli esseri dovevano essere fabbricati partendo dall’influenza positiva o negativa che gli si voleva conferire e che doveva provenire direttamente dall’anima interiore del fabbricatore o di chi ne commissionava la fabbricazione. Erano quindi delle povere piccole vittime ignare, sulle quali caricare tutte le colpe e le forze negative di questo mondo, degli agnelli sacrificali da offrire in cambio dei propri errori, delle proprie debolezze, o da immolare per il proprio smisurato egoismo. Ad esempio, durante un’epidemia di peste potevano essere fabbricati appositamente degli omuncoli sopra i quali caricare poi tutta la negatività mortifera del morbo e nel giro di pochi giorni la malattia sarebbe svanita nel nulla con la morte delle sventurate creature.
L: La tua arte, le tue opere, le tue idee, si intrecciano fra loro creando un’unica grandiosa opera dal tocco originale che ti contraddistingue. Anche nel tuo ultrapremiato film Krokodyle del 2010 (miglior film fantasy al 6° Cinefantasy di San Paolo in Brasile, miglior film internazionale al Puerto Rico Horror Film Fest 2011, menzione Speciale al Sitges 2011 e al Fantaspoa 2011) infatti assistiamo alla creazione di un omuncolo da parte del protagonista Kaspar. Questa pellicola risulta complessa ma in realtà credo rifletta il mondo fatto di idee e di passioni che custodisci nella tua testa. Cosa rappresenta per te questo film?
B: Krokodyle è un diario filmato, che contiene le mie personali considerazioni sul cinema, sulla fissazione per la cattura delle immagini e su cosa significa vivere da filmmaker, con la testa perennemente tra le nuvole, in attesa di un contatto o di una telefonata che mi faccia sperare che forse, e dico forse, tra mesi, o anni, partirà un mio progetto cinematografico.
Non ho chiaramente voluto mettermi davanti alla macchina da presa, non ne ho la minima voglia, non ne sono capace e non sarebbe stato assolutamente interessante. Così mi sono fatto sostituire sullo schermo da un attore (Lorenzo Pedrotti) che ha vestito i panni di Kaspar Toporski, il mio alter ego. Ho poi inventato attorno a Kaspar una serie di altri personaggi che hanno diviso con lui concetti ed ossessioni, in modo che il tutto potesse essere diluito in una storia e potesse cosi allontanarsi dalla struttura del documentario, o mockumentary che sia.
Nel film mi identifico in Kaspar Toporski, un giovane filmmaker di origini polacche trasferitosi lontano dalla sua città natale in giovanissima età. Kaspar (come me) vorrebbe riuscire a materializzare le sue idee sullo schermo, ma non riesce a trovare la strada e gli interlocutori giusti per poterlo fare. E’ in attesa di risposte per i suoi progetti cinematografici, così trascorre le sue giornate disegnando, scrivendo ed inventando un suo mondo immaginario che giorno dopo giorno sembra diventare sempre più reale. Nutre fin da bambino un’ammirazione sfrenata per i coccodrilli, che considera esseri perfetti in grado di controllare lo scorrere del tempo.
Per fermare le sue idee, Kaspar inizia a realizzare un film su se stesso, una sorta di taccuino di appunti cinematografici, fatto di immagini catturate d’istinto, di disegni, di fotografie, di brevi animazioni, di suoni, di parole e di musica, di sogni e di incubi.
Con il passare del tempo ed il progredire del suo film però l’allontanamento di Kaspar dal mondo reale sembra farsi sempre più insistente, fino a portarlo a pensare di essere sull’orlo della follia e di essere lui stesso il frutto bizzarro della sua incontrollabile fantasia.
Quello che racconto in “Krokodyle” è la mia vita di tutti i giorni, anche se raccontata in forma fantastica e arricchita di invenzioni e personaggi per immergerla in una dimensione narrativa accattivante.
L: Ma parliamo della versione macabra di Alice nel paese delle meraviglie: Alice sotto terra (2012) a cui tra l’altro è stata dedicata una mostra alla DOROTHY CIRCUS GALLERY a Roma NEL 2012. Trattasi di un taccuino di viaggio che raccoglie disegni e appunti sugli abitanti del sottosuolo. Un mondo sotterraneo da te amato visti gli elementi che lo popolano e che hanno un posto molto importante nella tua wunderkammer. Com’è nata questa tua idea?
B: Conosco Alice fin da quando ero bambino e ho sempre disegnato i personaggi della storia scritta da Carroll. Poi nel 1989 ho realizzato una prima serie di illustrazioni che ho ritrovato qualche tempo fa e che ha destato la curiosità del mio editore. Così invece di pubblicare quella serie di vecchi disegni, ho deciso di realizzarne di completamente nuovi, corredandoli con piccole descrizioni dei singoli personaggi.
Così è nato ALICE SOTTO TERRA, un taccuino di viaggio con schizzi e appunti sugli abitanti del paese delle meraviglie. Un “bestiario” stilato con lo sguardo di un naturalista dall’animo vittoriano, diviso tra la passione per gli insetti, gli scheletri, gli spettri, la fotografia…
Il mio libro è un piccolo viaggio tra gli abitatori del sottosuolo visti con uno sguardo personale, macabro, quasi da “intruso”, dove Alice diviene una di loro, perfettamente calata in quella realtà ribaltata che dovrebbe invece meravigliarla.
Per Lewis Carroll il paese delle meraviglie si trovava sottoterra così ho voluto continuare a giocare con ciò che si trova lontano dalla superficie. Il primo manoscritto, creato per la piccola Alice Liddell, si intitolava infatti “Alice’s adventures under ground”.
La mia Alice è comunque una versione personale, molto macabra e mortifera, ma al tempo stesso estremamente fedele allo spirito originale dell’opera. Ho voluto allontanarmi dagli stereotipi che sono stati creati in tutti questi anni, soprattutto dopo la versione cinematografica a cartoni animati della Disney e di quella più recente di Tim Burton. Non c’è quindi lo ‘Stregatto’ ma il ‘Gatto del Cheshire’, niente ‘Bianconiglio’ ma un semplice quanto mortifero Coniglio Bianco. I punti di riferimento, oltre al testo originale, alle illustrazioni dello stesso Carroll e quelle della prima edizione ad opera di John Tenniell, saranno vari, a partire dai grandi temi che caratterizzarono la cultura vittoriana come la zoologia, l’entomologia, la fotografia, lo spiritismo, la Phantasmagoria.
L: Nelle librerie attualmente si trova anche Canti della forca (GallowsSongsGalgenlieder), un libro su un gruppo di impiccati che penzolano dalle forche sul Monte del Patibolo. Al libro è allegato anche un DVD contenente il cortometraggio. Per questa tua opera ti sei ispirato ai Canti della forca dello scrittore tedesco Christian Morgenstern, una serie di scritti infantili da cui tu hai preso spunto per dare forma a personaggi e per creare una storia che li coinvolga. Cosa ti ha colpito dell’opera dello scrittore tedesco tanto da creare intorno ad essa un tuo mondo personalizzato e animato?
B: Il film prende spunto da una serie di scritti apparentemente bislacchi e infantili dello scrittore tedesco Christian Morgenstern (Monaco di Baviera, 1871 – Merano, 1914), i cui personaggi appena abbozzati prendono vita attraverso la mia fantasia. Ho inventato per loro personalità e fisionomie, e sviluppato una nuova storia originale per poterli unire tutti in un’unica vicenda. Un libero gioco, insomma, con il mirabolante popolo del patibolo creato dallo scrittore tedesco.
Si tratta chiaramente di un modo per riuscire a realizzare il progetto di lungometraggio, ben più costoso e complesso. Quindi sto utilizzando ora il cortometraggio e il libro per cercare di coinvolgere dei produttori europei nell’operazione
Ho incontrato casualmente i Canti della Forca tanti anni fa in una piccola libreria, uno di quei posti dove puoi acquistare per pochi spiccioli delle vecchie edizioni ormai fuori commercio. Inutile dire che ne rimasi immediatamente affascinato e che decisi di lavorarci sopra, anche se mi resi conto di lì a poco che si trattava di uno scrittore praticamente sconosciuto, almeno in Italia, e che le edizioni delle sue opere erano pochissime ed ormai praticamente introvabili. Questo non poteva che accrescere la mia curiosità e la mia voglia di trarne qualcosa che potesse rendere attraverso il mezzo cinematografico le sensazioni visive che quelle strambe filastrocche mi trasmettevano. Era il 1993 o forse il 1994, per anni buttai giù schizzi su strambi personaggi, ispirandomi a quegli scritti che ormai avevo letto, riletto ed imparato a conoscere anche attraverso un apparato di scritti critici faticosamente racimolato in giro per biblioteche, poi nel 1999 decisi di fare una prima incursione cinematografica nell’universo morgensterniano e realizzai un piccolo rudimentale cortometraggio basato su una mia personale selezione dei canti del patibolo, sostenendolo con dei miei scritti aggiunti per fornirgli una semplicissima ed apparente struttura narrativa. Il cortometraggio incontrò il favore di alcuni critici, che mi onorarono della paternità della scoperta e della divulgazione di un autore misconosciuto, ma sollevò le perplessità e lo sconcerto di buona parte del pubblico, sicuramente non propenso al non-sense, soprattutto se di natura macabra. Decisi comunque che prima o poi avrei continuato il lavoro, quindi pur lavorando in questi anni su progetti più commerciali, non ho mai smesso di pensare ai Galgenlieder e di buttare giù schizzi ed appunti.
E oggi, a distanza di tanti anni, ho deciso di realizzare il libro ed il film sui Canti della Forca, approfittando del fatto che tra pochi mesi, a marzo 2014, saranno esattamente cento anni dalla morte di Christian Morgenstern.
L: Canti della forca può essere considerato uno spin-off di Krokodyle?
B: Assolutamente si.
L: Oltre alle illustrazioni realizzi su richiesta anche dei bellissimi burattini in resina, personaggi dei Canti della forca (Scheletrino, il piccolo burattino…). I toy sono dipinti a mano e la tiratura di ciascun personaggio è limitata a 30 esemplari. Sono richiesti dai tuoi fan?
B: Mai venduto uno…
L: A cosa stai lavorando attualmente?
B: Sto lavorando ad una versione macabra di Pinocchio, con influenze dal Frankenstein di Mary Shelley e delle teorie criminali di Cesare Lombroso.
L: Chi sono stati i maestri della tua vita?
B: Nel cinema gli autori che stimo e che inevitabilmente influenzano il mio lavoro di regista, sono tutti autori fortemente caratterizzati, riconoscibili dopo poche inquadrature e che possiedono uno stile inconfondibile ed una poetica molto vicina alla mia. Ammiro Jean Pierre Jeunet, per il suo mondo grottesco, fumettistico, colorato, poetico. Tim Burton, per il suo universo bambinesco ma oscuro, incentrato sulla diversità. Peter Greenaway, per il suo rigore scientifico e pittorico e per il suo essere barocco, enciclopedico, artificioso e anacronistico. Guillermo Del Toro, per i suoi personaggi usciti direttamente da un vecchio libro di fiabe. Roman Polansky per la poesia del racconto, la malinconia e per la sua teoria del complotto e la fobia per gli spazi chiusi. Terry Gilliam per il suo folle baraccone di curiosità e stranezze che lo trasforma in un moderno Barnum. E poi sicuramente JanSvankmajer ed i fratelli Quay, pionieri e scienziati pazzi di quella stramba disciplina che è l’animazione in stop-motion.
Mi piacciono le illustrazioni di DusanKallay, di Roland Topor, di LisbethZwerger, di ElizabethMcGrath. Impazzisco per le fotografie di Joel Peter Witkin. Inoltre adoro le ballate macabre di Nick Cave, ascolto estasiato il punk balcanico dei Gogol Bordello, il folk francese dei TetesRaides, e poi Mano Negra, LesNegressesVertes…
L: Quali sono le pellicole horror che più ti hanno colpito?
B: “La Notte dei morti viventi” di Romero, “Nosferatu” di Herzog, “Shining” di Kubrik, “I guardiani della notte” di Bekmambatov, “Non aprite quella porta” di Hooper… la lista sarebbe lunga.
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