
“Mi limito a torcere il mio cuore per farlo sgocciolare in perle curiosamente intagliate”
Nessuna figura meglio dei malinconici Pierrot lunari dipinti nelle sue poesie, che hanno negli occhi l’ingenuità e l’innocenza, in cui convivono una dolorosa ironia e fiumi di malinconia, rappresentano Jules Laforgue (Montevideo, 1860 – Parigi, 1887), la sua essenza e le sue contraddizioni.
“Il cuore bianco tatuato
di sentenze lunari.
Hanno: < < Frattelli, bisogna morire! >>
Come Evoé e per parola d’ordine.
Quando una vergine trapassa
seguono il suo corteo,
tenendo il collo ben dritto
come si regge un bel cero.
Parte assai faticosa,
tanto più che non hanno nessuno
a casa che li frizioni con un unguento coniugale.
Quei dandy della Luna
s’impongono, in effetti
di cantar < < Permettete? >>
alla bionda ed alla bruna”.
(frammento di Pierrot, da Imitation de Notre-Dame la Lune selon Jules Laforgue)
In poesia non esistono personaggi maggiormente autobiografici dei bianchi Pierrot che sfilano costantemente nei versi del poeta francese, definito talvolta il più grande dei poeti minori dell’ottocento francese (definizione alquanto ingenerosa vista la qualità dei suoi versi, e l’influenza su autori del novecento quali Eliot o Montale).
I Pierrot già presenti nei Complaintes diventano una presenza rincorrente in Imitation de Notre-Dame la Lune selon Jules Laforgue con i loro monologhi, i lamenti alla luna, esponenti di una razza sé, così come Laforgue fu un poeta unico e a sé stante nel panorama ottocentesco francese.
Lo spleen divenuto ormai di moda in quel periodo, così come il suo dandismo (ed i Pierrot tratteggiati sono dei bianchi dandy) si riflettono nella sua ossessione per la noia che divora l’esistenza (la serie interminabile di Dimaches, funeree processioni di Domeniche che ingrigiscono l’esistenza umana e ne sottolineano il malessere).
“Ecco scende la sera, dolce al vecchio lascivo.
Murr il mio gatto siede come araldica sfinge
contempla, inquieto, con la sua pupilla fantastica
viaggiare all’orizzonte la luna clorotica.
E’ l’ora nella quale l’infante prega, dove Parigi-fogna
getta sul pavimento dei viali
le sue falene dai seni freddi che, sottola luce spettrale
del gas, l’occhio che fiuta un maschio casuale.
Ma, presso il mio gatto Murr, sogno alla finestra.
Penso a bambini che ovunque, in questo istante, sono nati.
Penso a tutti i morti sotterrati oggi.
E mi figuro d’essere in fondo al cimitero,
e entrando nelle bare, mi metto al posto
di quelli che qui passeranno la loro prima notte”.
(‘La Prima Notte’, da Singhiozzi della terra)
Fare qualcosa d’originale a qualunque costo’ , questo il proposito artistico di Laforgue, che si dibatte preda dello spleen e della noia, nel molto tempo libero lasciatogli dalla professione di lettore privato per l’imperatrice tedesca Augusta. Uno spleen che oscilla tra il popolare ed il sublime, tra l’ironico distacco e la dolorosa partecipazione.
Il suo è un lavoro aperto, le sue poesie si rincorrono, e non vengono mai considerate complete, infinite versioni differenti dello stesso testo si susseguono, versi vengono ripresi in altre composizioni, e lavori vengono rinnegati.
Tra gli scritti della sua opera poetica (Le sanglot de la terre, Les complaintes, L’imitation de Notre-dame la lune, Des fleurs de bonne volonté, Derniers vers), per sua precisa volontà solo Les Complaintes (1885) e L’imitation de Notre-Dame la lune selon Jules Laforgue (1886), oltre al poemetto Le Concile Féerique (1886) furono pubblicati.
Le sanglot de la terre, ambizioso progetto in cui l’uomo è preda di smarrimento e senso di ribellione nei confronti del creato, rimane incompiuto e superato (e per questo non pubblicato) filosoficamente da Laforgue, che passa a posizioni di dolorosa accettazione della vita e d’ironia, sua arma di difesa.
“Oh! Più che tra i fiori di bistro di Baudelaire,
più che negli autunnali ritornelli di Chopin,
più che in un rosso Rembrandt che un giallo raggio sfolgora,
così adatti agli spleen sono soltanto i tramonti di Giugno“.
(frammento di Rosone d’invetriata, da Singhiozzi della terra)
Rispetto all’assolutismo dei simbolisti, Laforgue adotta un tono più popolare e canzonatorio, avvicinandosi a Corbiere e Cros; malinconia, ironia, scherzo convivono il lui e nei suoi versi, così come il banale ed il sublime, in un teatro in cui sfilano Pierrot e tramonti, lune e domeniche, e sullo sfondo sonoro s’odono immancabili organetti di Barberia e campane.
Oltre che con i suoi Pierrot, finisce per identificarsi con la figura di Amleto (si veda anche la sua opera in prosa Le Moralità Leggendarie), e sviluppa un rapporto drammatico con la figura della donna.
Il rifiuto della sfera sessuale e materiale nella donna é un tema fondamentale per capire Laforgue e la sua poesia: Laforgue uomo rimane infantilmente, candidamente, ed idealmente fermo alla fase pre-adolescenziale, non riesce ad accettare la carnalità nei rapporti tra i sessi, e vagheggia un ideale femminino di purezza.
Non stupisce dunque il ricorrere del bianco, quale simbolo di questa ricercata purezza, che tuttavia è dolorosamente presente anche in cose assolutamente materiali e in contatto con la materialità e la carne, quali biancheria, lenzuoli, veli, cuffie, abiti delle suore, indumenti a contatto con le secrezioni umani e destinati perciò a macchiarsi e smarrire la loro purezza simbolica.
E così il poeta costantemente oscilla tra questo desiderio ideale e fredde accuse ironiche alle donne, sulle quali infierisce mettendone in luce i difetti e l’anima vanitosa e civettuola.
Si rifugia dunque nella luna, invocata e contemplata a distanza, assunta a simbolo romantico e malinconico di un ideale ad assoluto immacolato, sortilegio di amori bianchi
Nel 1887, a soli 27 anni, un anno dopo essersi sposato, si ammala di tubercolosi e muore il 20 Agosto dello stesso anno. Il 16 Giugno dell’anno seguente anche la moglie seguirà la stessa sorte.
Muore così uno dei poeti più singolari e personali del simbolismo.
Speciale a cura di Ian